Visto! numero 1 maggio 2022
Visto!
Periodico di informazione della sezione di Siena - numero 1 - maggio 2022
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IL MAGNIFICO RETTORE DELL’UNIVERSITÀ PER STRANIERI
CI REGALA IL SUO DISCORSO DI INSEDIAMENTO NEL RUOLO DI RETTORE
Autorità, colleghe e colleghi docenti e non docenti, studentesse e studenti, amiche e amici che oggi siete con noi, e caro Magnifico Rettore, caro professor Cataldi – caro Pietro.
La prima cosa che voglio dire prima di varcare la soglia che oggi mi porta a continuare il tuo lavoro; la prima cosa che voglio dire, parlando a nome della nostra collettività, è: grazie, Pietro!
Grazie per la misura, la grazia, l’equilibrio, la dedizione, la determinazione, e vorrei dire l’amore con cui ti sei preso cura di questa comunità, nella buona e nella cattiva sorte.
Grazie per la prosperità, la crescita, l’autorevolezza che hai saputo garantire alla Stranieri.
Grazie per la guida sicura nel buio della pandemia.
Grazie soprattutto per una cosa, che mi colpì fin dal primo momento che ci conoscemmo: grazie perché non ti sei mai vergognato della tua umanità. Ricordo che pensai che se un rettore di una università italiana era ancora visibilmente un essere umano, allora forse c’era qualche speranza.
Da allora ho imparato a conoscerti, e negli ultimi mesi sei stato per me non solo un mentore incredibilmente paziente e uno straordinario didatta, ma anche un amico vero. E, lo sai, da domani ti troverai ad avere ancora più pazienza. E questo grazie, pubblico e solenne, è anche per tutto quello che ancora ti chiederò.
Hai chiuso il tuo discorso ricordandoci che «il nostro lavoro è tenere insieme lo spazio definito di questa città tanto identitaria e le quinte sconfinate del mondo, il nostro lavoro – hai detto – è la fatica e la felicità dell’attraversamento».
Il nostro lavoro. Fermiamoci su queste due cose: noi, la nostra comunità accademica; e il lavoro che facciamo.
Il mio impegno per i prossimi sei anni è che continuiamo ad essere, e diventiamo ancor più, un noi. «Salvarsi da soli è avarizia, salvarsi insieme è politica», diceva don Lorenzo Milani (e lo ripeterà tra poco il ministro Roberto Speranza, che ringrazio per aver voluto essere, virtualmente, con noi): e la nostra politica è quella di pensare non come una somma di egoismi, ma come una comunità.
Ho provato a spiegare, nel programma di mandato, cosa questo vuol dire, in concreto e a partire dal ruolo del rettore.
Primo. Un governo plurale e paritario, di prorettrici e prorettori, delegate e delegati. Perché l’unico modo di far sì che il potere diventi servizio, non solo nella retorica, è suddividerlo, assumerlo insieme, renderlo largo, trasparente, responsabile.
Secondo. Una comunità di eguali fondata sulle diversità. Il che vuol dire: comportarsi ogni volta che sia possibile, e tendenzialmente sempre, come se esistesse un ruolo unico della docenza (e lottare perché esista presto), e abolire ogni odioso segno di gerarchia tra docenti, non docenti e studenti. Siamo persone: rimaniamo persone!
E vuol dire anche abbandonare, progressivamente e sostenibilmente, ogni forma di precarietà, cioè di sfruttamento. Tra i docenti, tra i non docenti, tra le persone che assicurano ogni giorno la pulizia e l’accessibilità degli edifici in cui si svolge la nostra vita.
E riconoscere, valorizzare, celebrare (in parole e opere) le diversità: quelle dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, quelle delle lingue e delle culture, quelle delle età e dei talenti. Perché «siamo differenti, inteso ‘differenza’ nel senso di diversità delle identità personali» e perché «siamo disuguali, inteso ‘disuguaglianza’ nel senso di diversità nelle condizioni di vita materiali». E l’eguaglianza – questo il punto centrale – si deve realizzare «a tutela delle differenze e in opposizione alle disuguaglianze».
Siamo una comunità dalla parte dei più deboli. Delle donne, di chi è o si sente diverso, di chi è povero culturalmente e materialmente, di chi è marginale e periferico. Siamo una comunità antifascista.
Ha un prezzo questo? Sì, lo ha.
Nelle scorse settimane, per aver espresso un punto di vista culturale, per aver ammonito sulle conseguenze della manipolazione politica della storia, per aver denunciato la strumentalizzazione politica delle vittime delle Foibe, ho dovuto subire un accanito linciaggio mediatico. E voi con me: e ve ne domando scusa.
Penso, tuttavia, che ne valga la pena. Nel programma di mandato mi sono impegnato a dedicare dodici aule ai soli dodici professori universitari che non giurarono fedeltà al fascismo, nel 1931: ho capito a mie spese quanto quell’idea fosse attuale. Se guardiamo a quella generazione, la resistenza che ci è richiesta, è ben poca cosa: non farla – per convenienza, viltà, malinteso amore di pace – sarebbe una vergogna imperdonabile.
Del resto, da storico dell’arte credo profondamente nella forza dei luoghi, nelle storie e nei destini che nei nomi dei luoghi sono iscritti.
Ebbene, la vita della nostra piccola università si muove tra due poli principali: “Rosselli” (questo plesso) e “Amendola” (il rettorato). Il nostro ‘noi’ è piantato nel cuore della toponomastica antifascista: quelle vite, quegli ideali, quelle voci ci accolgono e vegliano su di noi.
Carlo Rosselli, a cui è intitolato il piazzale che tutti abbiamo appena attraversato arrivando qua, è una figura altissima di professore, di intellettuale, di antifascista – di martire dell’antifascismo, ucciso insieme a suo fratello Nello in Francia nel 1937, per ordine di Mussolini.
Tra le tante pagine che, negli articoli di Carlo Rosselli, sembrano scritte per noi ce n’è una (del 1934) che spiega a fondo cosa significhi essere antifascisti oggi (nel 2021), e cosa significhi esserlo da umanisti, e in una università per Stranieri: «Siamo antifascisti non tanto e non solo perché siamo contro quel complesso di fenomeni che chiamiamo fascismo; ma perché siamo per qualche cosa che il fascismo nega ed offende, e violentemente impedisce di conseguire. Siamo antifascisti perché in questa epoca di feroce oppressione di classe e di oscuramento dei valori umani, ci ostiniamo a volere una società libera e giusta, una società umana che distrugga le divisioni di classe e di razza e metta la ricchezza, accentrata nelle mani di pochi, al servizio di tutti. Siamo antifascisti perché nell’uomo riconosciamo il valore supremo, la ragione e la misura di tutte le cose, e non tolleriamo che lo si umilii a strumento di Stati, di Chiese, di Sette, fosse pure allo scopo di farlo un giorno più ricco e felice. Siamo antifascisti perché la la nostra patria non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi».
La nostra patria è il mondo, e la nostra piccola comunità si autodetermina declinando questi valori altissimi nella gioia e nella fatica del lavoro di ogni giorno.
Nel Senato accademico (che si riunirà, nella sua nuova composizione, già il prossimo 19), nel Consiglio di Amministrazione, nel Consiglio di Dipartimento decideremo insieme come attuare tutte queste cose, esposte in dettaglio nel Programma di mandato e nel discorso con cui, l’8 giugno scorso, ho chiesto la vostra fiducia.
Ma, in questo giorno fausto, abbiamo qua molti ospiti e amici, e dunque nei prossimi minuti non vorrei parlare ancora di noi, bensì del nostro lavoro, continuando a riflettere sulle ultime parole del discorso di Pietro.
Qual è, dunque, questo nostro lavoro?
È lo stesso della scuola: perché l’università, non mi stancherò di ripeterlo, è parte della scuola – è scuola. E quel lavoro è formare cittadini, e prima ancora persone: persone umane.
Tutta l’università esiste per formare umani, anche Legge o Ingegneria non sfornano solo avvocati o ingegneri, ma formano o non formano esseri umani. Noi, poi, come umanisti siamo capaci solo di fare quello: se non lo facciamo più, siamo come il sale quando perde il suo sapore.
Ma non possiamo farlo, questo lavoro, se non siamo umani noi stessi.
Un singolare paradosso – confessiamocelo. Se passiamo la vita a studiare humanities, e non riusciamo a diventare un poco umani, a cosa davvero abbiamo dedicato la vita?
Per questo non si può separare ricerca e didattica, studio e insegnamento, biblioteca e aula: perché se ci separiamo dalla sorgente, siamo fontane aride.
E per questo il governo dell’università, la sua organizzazione, non può mai diventare impersonale, spersonalizzata, astratta, burocratica. Non è un’azienda, non si ciba di numeri. Siamo una comunità di persone, in cui le persone vengono prima di ogni altra cosa. Siamo come l’orco della favola a cui Marc Bloch paragona lo storico: «Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Solo che non vogliamo mangiarla, la nostra preda: la vogliamo far vivere più intensamente. Più umanamente.
La prima cosa che dunque abita le nostre aule è il dubbio, il pensiero critico, la contestazione di ogni dogma, di ogni autorità – a partire dalla nostra. A partire da quella del rettore.
La nostra deve essere un’università ribollente di letture tendenziose. È il titolo delle «parole dette [da Franco Antonicelli] per l’inaugurazione della Biblioteca dei portuali di Livorno», il 15 ottobre del 1967. Già, perché gli scaricatori di porto avevano voluto una loro biblioteca: strumento di riscatto e di liberazione. E Antonicelli, questo intellettuale singolarissimo e libero, quel giorno memorabile consigliò loro ciò che oggi vorrei consigliare alle studentesse e agli studenti della Stranieri: «Cercate sempre i libri che vi tormentano, cioè che vi conducono avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza: questi sono i libri, i libri non di fede accertata, ma di fede incerta. Questi sono i libri che un cittadino, un portuale che diventa, che è, che vuol essere più cittadino deve leggere».
Dobbiamo costantemente ricordare che la nostra ispirazione è questa fede incerta, piena di dubbi. Consapevole che abbiamo scelto questa vita e questa via, non perché pensiamo di sapere molto. Al contrario, l’abbiamo scelta perché sappiamo di non sapere. Ha detto la poetessa polacca Wislawa Szymborska, nel discorso di accettazione del Premio Nobel, nel 1996: «ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C'è, c'è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall'ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può costituire un'incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L'ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so” … A questo punto possono sorgere dei dubbi in chi mi ascolta. Allora anche carnefici, dittatori, fanatici, demagoghi in lotta per il potere con l'aiuto di qualche slogan, purché gridato forte, amano il proprio lavoro e lo svolgono altresì con zelante inventiva. D'accordo, loro “sanno”. Sanno, e ciò che sanno gli basta una volta per tutte. Non provano curiosità per nient'altro, perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti. E ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita. Nei casi più estremi, come ben ci insegna la storia antica e contemporanea, può addirittura essere un pericolo mortale per la società. Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta “non so”, sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca».
È per proclamare questo «non so», è per questa fede incerta, vedete, che ho preferito non indossare la toga: e chiedo scusa se questo gesto può aver offeso qualcuno. Perché tra quei libri di fede incerta ne ho letti due (i Pensieri di Blaise Pascal e le Tre Ghinee di Virginia Woolf) che mettono in guardia dal rischio di trovare troppo certezze nelle vesti liturgiche dei poteri maschili. Il primo ha scritto che se «i magistrati possedessero la vera giustizia non saprebbero che farsene di quelle loro toghe rosse, dei loro ermellini, di cui s’ammantano come gatti villosi… se i medici sapessero la vera arte per guarire, non avrebbero palandrane e pantofole, e berrette a quattro pizzi». E Virginia suggeriva che le coloratissime toghe delle università inglesi servissero a suscitare «competitività e invidia». Un recente, luminoso discorso delle allieve e degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa, mia amata alma mater, ci ha di recente ricordato quanto questi sentimenti siano attivi, e distruttivi, nell’università prigioniera del mito dell’eccellenza. Dunque, non rifugiamoci nelle insegne che proclamano al mondo che siamo quelli che sanno. Preferiamo l’umiltà – cioè l’amorevole, francescana vicinanza alla terra – di chi sceglie come sua insegna il «non so».
Agli abiti, ai gesti, ai riti, ai pensieri che disegnano l’università come un clero separato dal mondo, preferiamo tutto ciò che ci restituisce al mondo, e al nostro lavoro per cambiarlo.
Per questo accogliamo con gioia e gratitudine le bandiere delle diciassette contrade, il gonfalone della Regione Toscana e quello della Provincia: perché l’università si sente parte di una comunità civile, della sua storia, del suo desiderio di futuro.
Siamo profondamente legati all’amatissima città di Siena, e alle sue istituzioni: qua oggi tra noi rappresentate dalla Balzana, il gonfalone civico che salutiamo con deferenza e con affetto. E desidero inviare il saluto più rispettoso e amichevole al Sindaco di Siena, che ha scelto di non essere presente tra noi.
Abitare il mondo significa – ce lo insegnano le nostre studentesse e i nostri studenti – aver voglia di cambiarlo dalle fondamenta. E la lezione inaugurale, che tra poco ascolteremo, serve a non lasciare dubbi sulla direzione in cui vogliamo cambiarlo, il mondo.
Pietro ed io abbiamo chiesto a Cecilia Strada di aprire questo anno accademico, perché ci pare che Resq, «la nave degli italiani» che solca il Mediterraneo per salvare «esseri umani, leggi e diritti», della quale Cecilia è portavoce, sia tra le luci accese nell’eterna notte della Repubblica.
Italiani che accolgono stranieri: e che per accoglierli li strappano al mare, perché non siano riconsegnati alle carceri libiche – a torture pagate con i soldi delle nostre tasse. Resq salva la nostra stessa identità: «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: sono parole del primo canto dell’Eneide, a parlare è Enea.
«Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: se questo è il mito fondativo di Roma, come potremmo essere più fedeli alla traditio, al passaggio di mano della cultura, se non con la presenza, la testimonianza, la parola di Cecilia Strada?
Siamo stranieri in Italia: da sempre meticci, fusi, diversi, sangue misto, bastardi. Questa la nostra storia: questo il nostro progetto per il futuro. Questo, in una università in cui si impara a diventare stranieri, è davvero il nostro lavoro di ogni giorno.
La nave Resq dice di sé, lo abbiamo sentito, che salva non solo i corpi, ma anche le leggi. Già, le leggi.
Oggi vorrei ricordare che costruendo le basi culturali per aprirci agli stranieri, la nostra università è dalla parte della legge, dell’ordine. È bene ricordarlo, in un’Italia in cui legge e ordine sembrano essere diventate bandiere di chi i migranti li sequestra sulle navi, o li vorrebbe affondare sui barconi.
Nadia Fusini – che oggi ci onora della sua presenza – mi ha regalato l’ancora inedita traduzione di un brano del Thomas More, questo dramma scritto nell’Inghilterra del primo Seicento da un collettivo di autori, uno dei quali fu nientemeno che William Shakespeare.
E proprio in uno dei brani così evidentemente suoi, leggiamo parole che sembrano scritte per oggi. Tomaso Moro, cancelliere del regno, è chiamato a sedare il tumulto del popolo che vorrebbe cacciare gli stranieri che rubano il lavoro agli inglesi. Così si rivolge loro:
Diciamo che sono espulsi, e diciamo che questa vostra protesta
Giunga a ledere la maestosa dignità dell’Inghilterra.
Immaginate di vedere gli stranieri disgraziati,
Coi bambini sulle spalle, i loro miseri bagagli,
Arrancare verso i porti e le coste per imbarcarsi,
E voi assisi in trono, padroni ora dei vostri desideri,
L’autorità soffocata dalle vostre risse,
Voi, agghindati delle vostre opinioni,
Che avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete insegnato
A far prevalere l’insolenza e il pugno forte,
E come si annienta l’ordine. Ma secondo questo schema
Nessuno di voi arriverà alla vecchiaia:
Ché altri furfanti, in balìa delle loro fantasie,
Con quello stesso pugno, con le stesse ragioni, e lo stesso diritto,
Come squali vi attaccheranno, e gli uomini, pesci famelici,
Si ciberanno gli uni degli altri.
…
Volete calpestare gli stranieri,
Ucciderli, sgozzarli, impadronirvi delle loro case,
Mettere il guinzaglio alla maestà della legge
Per aizzarla poi come un cagnaccio. Ahimè! Diciamo che il Re,
Clemente col traditore pentito, rispondesse
In modo non commisurato alla vostra grande colpa,
Mettendovi al bando: dove ve ne andrete?
Quale paese, vista la natura del vostro errore,
Vi darà asilo? Che andiate in Francia o
Nelle Fiandre, in qualsiasi provincia germanica,
In Spagna o in Portogallo,
In qualunque luogo che non sia amico dell’Inghilterra:
Ebbene, lì sareste per forza stranieri. Vi piacerebbe forse
Trovare una nazione di temperamento così barbaro
Che scatenandosi con violenza inaudita,
Vi negasse rifugio sulla terra, anzi
Affilasse detestabili coltelli per le vostre gole,
Scacciandovi come cani, come se non fosse Dio
Che v’ha fatto e creato, come se gli elementi naturali
Non servissero anche ai vostri bisogni
Ma dovessero essere riservati a loro? Cosa pensereste
Di un simile trattamento? Questo è il caso degli stranieri,
Questa la vostra montagnosa disumanità.
Chi caccia lo straniero, chi lo perseguita, chi lo insulta distrugge la legge e l’unico ordine possibile, quello umano. Le parole di Shakespeare sono ancora più vere nell’Italia di oggi, retto da una legge fondamentale, la Costituzione del 1948, che fa del nostro comune essere persone umane il fondamento stesso di ogni legge. E, come vedete, dallo studio della storia e delle lingue, dalla filologia, dalla traduzione estraiamo continuamente, come da un tesoro, cose nuove e cose antiche.
Ecco, dunque, il nostro lavoro: tenere in tensione queste cose. L’antico e il nuovo, il passato e il presente: quella tradizione umanistica che ancora può renderci umani.
«La nostra patria – ci ha ricordato Carlo Rosselli – non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi».
È un forte, fortissimo invito alla presenza.
Ad essere presenti, contro ogni forma di indifferentismo.
Oggi siamo felici anche perché finalmente possiamo essere qua in presenza – pur conservando, come è doveroso, distanziamenti, mascherine, porte aperte e prudenza.
Il nostro impegno è che questa presenza fisica sia segno e annuncio di una presenza morale, culturale, umana dell’Università per Stranieri: nella città di Siena, in Italia e in un mondo che, anche per noi, coincide con la patria di tutte le donne e di tutti gli uomini liberi.
Buon lavoro a tutte, e a tutti!
Cenni biografici
Tomaso Montanari nasce a Firenze il 15 ottobre 1971. Rettore dell'Università per stranieri di Siena e giornalista apprezzato, Montanari è uno tra i massimi esperti di arte barocca europea, materia che insegna in diversi atenei italiani; è inoltre noto per le proprie posizioni politiche.
Sin da quando è molto piccolo mostra una propensione per le materie umanistiche, che affina frequentando il liceo classico della città toscana in cui nasce, Firenze, coerentemente intitolato a Dante Alighieri.
Una volta ottenuto il diploma riesce con determinazione ad accedere alla prestigiosa Scuola Normale di Pisa. All'interno di quest'ambiente particolarmente stimolante ha l'occasione di frequentare le lezioni di Paola Barocchi, nota storica dell'arte. Tomaso Montanari consegue la laurea in Lettere moderne nel 1994, alla quale affianca un perfezionamento in Discipline storico-artistiche.
Decide di perseguire in maniera attiva la propria carriera accademica, impegnandosi a fondo e riuscendo a diventare negli anni professore ordinario di Storia dell'arte moderna all'Università per stranieri a Siena; ciò dopo aver tenuto diversi corsi presso gli atenei Federico II di Napoli, Tor Vergata di Roma e all'Università della Tuscia.
Dal momento che viene riconosciuto dai colleghi accademici e della critica come uno dei massimi esperti di arte europea del periodo barocco, sono molte le pubblicazioni che hanno cercato la collaborazione di Tomaso Montanari nel corso degli anni.
Il suo nome compare in calce a numerosi articoli, saggi e riviste scientifiche; un brano tratto da un suo libro compare nella prima prova della maturità nel 2019, attirando le critiche di Vittorio Sgarbi e Matteo Salvini: il motivo sono le parole poco lusinghiere di Montanari rivolte a Oriana Fallaci e Franco Zeffirelli, contenute nell'estratto.
Non si tratta del primo motivo di contrasto con il leader della Lega, dato che Montanari si era occupato di scrivere la prefazione al libro di Antonello Caporale proprio su Salvini ("Il ministro della paura").
Tomaso Montanari e i legami con i partiti politici
Le sue posizioni politiche possono essere avvicinate in parte a una sinistra tradizionale, in parte alla spinta populista che ha sorretto l'avvento del Movimento 5 Stelle negli anni 2010; perciò non stupisce che entrambe le parti politiche abbiano tentato nel tempo di corteggiare Montanari, divenuto sempre più visibile in virtù della sua attività come giornalista e saggista.
Nel mese di giugno 2016 Montanari diventa consigliere speciale del neoeletto Lorenzo Falchi, sindaco di Sesto Fiorentino (per Sinistra Italiana). Nello stesso periodo declina l'invito della sindaca di Roma, Virginia Raggi, che avrebbe voluto fare di Montanari un esponente civico della nuova giunta grillina a capo della capitale, affidandogli la carica di assessore alla cultura. Tomaso dichiara però la propria disponibilità a entrare in una commissione culturale appositamente nominata; l'iniziativa non è destinata ad avere seguito.
Anche grazie alle sue posizioni apertamente No Tav, in strenua difesa delle Alpi Apuane, il leader politico del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo percepisce una vicinanza in Montanari, che chiama perciò a colloquio nel febbraio 2018, offrendogli di entrare nella lista dei ministri di un possibile governo pentastellato.
Con i sondaggi alla mano e la possibilità concreta, poi rivelatasi più che fondata, di dover formare un governo giallo-verde con la Lega, Tomaso Montanari rifiuta l'invito di Luigi Di Maio. Un altro motivo di contrarietà è il concetto di vincolo di mandato. Tra le antipatie politiche più note di Montanari vi è quella che lo vede contrapposto all'ex sindaco di Firenze e leader di Italia Viva, Matteo Renzi, che lo storico dell'arte critica fortemente sia come primo cittadino, sia successivamente per il referendum costituzionale.
L'attività di giornalista e la nomina a rettore
Oltre alle pubblicazioni legate al mondo dell'arte, Tomaso Montanari firma rubriche in giornali come l'Huffington Post, per il quale collabora dal 2015 al 2018, e Il Fatto Quotidiano, dove gestisce il contenitore settimanale Le pietre e il popolo.
Nel giugno del 2021 viene eletto con l'87% dei voti alla carica di rettore dell'Università per stranieri di Siena; Montanari si dimette poco dopo dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali come forma di protesta contro il ministro Dario Franceschini.
Curiosità su Tomaso Montanari
Della vita privata dello storico dell'arte fiorentino non si conoscono dettagli, poiché mantiene il massimo riserbo per quel che non attiene alla sfera professionale. Tuttavia, esponendosi nelle trasmissioni televisive emergono con chiarezza alcune peculiarità relative alle sue credenze personali, in particolare per quel che concerne le posizioni religiose. Montanari non nasconde la sua fascinazione nei confronti della figura di Don Lorenzo Milani: si considera un cattolico radicale.
Saggi e pubblicazioni
Sono numerosi i libri di Tomaso Montanari, scritti da solo, in collaborazione o da lui curati.
Proponiamo di seguito alcuni titoli degli anni 2020:
* Perdersi in Toscana: luoghi opere persone
* Dalla parte del torto: per la sinistra che non c'è
* L'aria della libertà: l'Italia di Piero Calamandrei
* Arte è liberazione
* Patrimonio e coscienza civile: dialogo con l'associazione «Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali»
* Pietro da Cortona: il ritratto di Mazzarino
* A cosa serve Leonardo? La ragion di Stato e l'Uomo vitruviano
* Eretici
* Chiese chiuse
In tv, su Rai 5 (per la regia di Luca Criscenti) ha curato e raccontato la storia dell'arte a puntate focalizzandosi su diversi autori:
* Bernini (8 puntate, 2015)
* Caravaggio (12 puntate, 2016)
* Vermeer (4 puntate, 2018)
* Velázquez (4 puntate, 2019)
* Tiepolo (4 puntate, 2020)
Redattori di Biografieonline.it
NOME DELLA FONTE
Biografieonline.it
URL
https://biografieonline.it/biografia-tomaso-montanari
Trentennale stragi, Ciotti:” Non servono parole leggere”
Per questo trentennale servono scelte e gesti pesanti: meno celebrazioni sterili e più attenzione all'oggi, col suo carico di ingiustizie e sofferenze
17 maggio 2022
Trent’anni dalle stragi di mafia, ed ecco che si torna a parlarne. Sarebbe un crimine trasformare questa ricorrenza in un’occasione per spendere parole vuote, al solo scopo di timbrare un anniversario che invece pesa ancora, e non poco, sulla coscienza dell’Italia intera. Per celebrare questo trentennale non servono allora parole leggere, ma scelte e gesti pesanti. Come se ne videro nel periodo subito successivo agli omicidi di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Senza dimenticare la morte indiretta della giovanissima testimone di giustizia Rita Atria, che si suicidò sconvolta per l’accaduto. Fu una reazione di peso quella di tanti siciliani, e dei cittadini di Palermo in particolare, che fisicamente si strinsero intorno a quelle bare, nella piazza della cattedrale, con affetto e con rabbia. E poi dalle finestre, dai balconi gridarono in maniera inequivocabile il loro no alle logiche di mafia, e sì alla giustizia dello Stato.
Mettersi in gioco
Quelle morti devono alimentare le nostre scelte di vita, che in questi trent’anni hanno dato frutto, ma non abbastanza
Fu pesante la scelta di chi si mise in gioco personalmente. Penso soprattutto a Gian Carlo Caselli, che si caricò dell’eredità di quegli straordinari colleghi ben sapendo i rischi ai quali andava incontro. Ma penso anche a tanti amministratori onesti, in Sicilia e non solo, ferrei nella difesa della legalità, dei diritti, della democrazia. Penso agli imprenditori che iniziarono a denunciare il pizzo, e ai giornalisti che si misero alla caccia di verità e connessioni. Fu pesante la presa di posizione della Chiesa, che attraverso le sue voci più autorevoli rinnegò qualsiasi forma di prudenza, compiacenza e ambiguità rispetto ai poteri criminali. Lo fece il vescovo di Palermo, Salvatore Pappalardo, sfinito dai troppi funerali di donne e uomini delle istituzioni celebrati in quegli anni.
Lo fece Papa Giovanni Paolo II con il suo grido dalla Valle dei Templi di Agrigento, nel maggio del ‘93, quando intimò ai mafiosi: “Convertitevi!”. E lo fecero con rinnovato vigore tanti religiosi e religiose, ma anche laici cattolici, che da sempre predicavano l’assoluta incompatibilità fra mafia e Vangelo. Non fu un caso se nei mesi successivi le mafie uccisero due di loro: don Pino Puglisi e don Peppino Diana. Fu pesante, perché pensata e non estemporanea, la resistenza di una parte della società civile italiana. Società civile e responsabile perché consapevole che era arrivato il momento non solo di commuoversi, ma di muoversi e smuovere le troppe coscienze ancora assopite e complici. Da quella consapevolezza nacquero tante iniziative in difesa della legalità e della giustizia, tanti progetti per restituire dignità e libertà alle persone sottoposte ai ricatti delle mafie, attraverso la cultura, l’informazione, il lavoro, i diritti sociali.
Beni confiscati, Papa Francesco "benedice" progetto in Argentina
Una scelta Libera
Libera fu uno di quei progetti, uno di quei percorsi. E mosse a sua volta i primi passi nella concretezza. Il primo fu la fondazione della rivista Narcomafie, nata per portare l’informazione sul crimine organizzato fuori dai recinti della cronaca nera, e che oggi trova continuità proprio ne lavialibera. Il secondo fu il sostegno alla legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati, dalla quale sarebbero poi scaturite tante altre occasioni di impegno. Il terzo fu l’intuizione di mettere in relazione fra loro i famigliari delle vittime innocenti di ogni mafia, affinché potessero sostenersi a vicenda, nel dolore del lutto ma più ancora nel desiderio di trasformare quel dolore in motore di cambiamento.
Questi trent’anni hanno visto altri passaggi di peso, nel contrasto alle mafie: nuove inchieste e nuove leggi, nuovi filoni di studio e nuove proposte didattiche, nuovi progetti di antimafia civile e nuove alleanze. Tuttavia sarebbe ingenuo ignorare che ci sono state altrettante leggerezze, inadeguatezze, inadempienze. E nuove vittime: tante altre vittime innocenti.
L'antimafia nel nome di Pio La Torre
Una nuova primavera
A trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio dobbiamo dare peso, forma ed efficacia politica alla necessità di potenziare il contrasto al crimine nelle sue varie forme: dalla violenza alla corruzione, dai mercati di morte delle armi e della droga all’estorsione e all’usura, dalla tratta agli ecoreati, dal caporalato, all’abusivismo, ai reati finanziari. Meno parole e più fatti! Meno celebrazioni sterili del passato e più attenzione all’oggi, col suo carico di ingiustizie e sofferenze. Senza cedere alla normalizzazione di una presenza mafiosa sempre meglio mimetizzata. E senza paura di definire mafioso tutto ciò che dalle mafie prende esempio: il capitalismo predatorio e senza regole, una politica opportunista, serva del consenso più che al servizio del bene comune, e una cultura della competizione, della sopraffazione e dell’egoismo che contagia ormai qualsiasi settore della vita privata e pubblica.
Falcone e Borsellino, ma anche Carlo Alberto dalla Chiesa e Pio La Torre – uccisi dieci anni prima insieme a Emanuela Setti Carraro, Domenico Russo e Rosario Di Salvo –, come tanti altri uomini e donne delle istituzioni, sono morti per difendere una giustizia intesa non come ideale astratto, ma bisogno concreto, garanzia di vita piena e serena per i cittadini tutti. Quelle morti alimentino le nostre scelte di vita, che in questi trent’anni hanno dato frutto, ma non abbastanza. Non abbastanza! Facciamo fiorire una nuova primavera di coraggio, che dia nuovi frutti di speranza! Coltiviamola con tutte le nostre forze, consapevoli dei limiti e della contraddizioni che affronta chi abbandona la strada agevole della retorica per imboccare quella tortuosa dell’impegno.
Donbass e Ucraina
Brevi cenni storici
di Massimo Vita
La storia recente dell’Ucraina è anche la storia del Donbass e della guerra che dal 2014 si combatte nell’area orientale del Paese. Proviamo a capire cosa è successo negli Oblast di Donetsk e Lugansk per comprendere perchè la guerra tra Russia e Ucraina si sta concentrando proprio in questa regione.
Il 21 febbraio 2022 Putin ha riconosciuto l'indipendenza delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, nel Donbass. Questo atto è stato il pretesto utilizzato dal capo del Cremlino per giustificare l'invasione dell'Ucraina, iniziata il 24 febbraio 2022. Nella notte tra lunedì 18 e martedì 19 aprile 2022, è iniziata la seconda fase della guerra in Ucraina, stando a quanto dichiarato dal Presidente ucraino Zelensky, che prevede proprio la conquista del Donbass e di alcune città strategiche per il controllo del territorio.
La storia recente dell'Ucraina è legata a doppio filo alle spinte indipendentiste e filorusse nel Donbass: il territorio, il cui nome deriva dalla contrazione di Donetsky Bassein ("bacino minerario situato lungo il corso meridionale del fiume Donetsk"), è infatti al centro dello scontro tra i due Paesi sin dal 2014. In quell'anno, infatti, Mosca ha prima annesso la Crimea, e poi sostenuto il movimento separatista nell'Ucraina orientale. Il conflitto è continuato nella regione fino al 24 febbraio 2022, quando Putin ha dato il via all'invasione su larga scala ancora in corso.
A distanza di quasi due mesi dallo scoppio della guerra, dopo aver provato a conquistare la capitale Kiev e le aree centrali del Paese, l'offensiva russa si concentra nuovamente sulle regioni del Donbass: per comprendere a fondo la centralità di questo territorio nell'offensiva di Mosca, e nei possibili negoziati di pace, riassumiamo in breve la storia di questo territorio e del conflitto politico, culturale ed economico iniziato nel 2014 e mai cessato.
La guerra nel Donbass, iniziata ufficialmente il 6 aprile del 2014, vide la contrapposizione tra l'esercito di Kiev e i separatisti delle regioni di Donetsk e Lugansk: il terreno di scontro fu proprio la regione dell'Ucraina orientale, il bilancio ufficiale fu di oltre 14mila morti. L'antefatto è da ritrovarsi nelle proteste dell'Euromaidan, iniziate alla fine del 2013 e terminate con l'esautorazione, da parte del Parlamento, del presidente Yanukovich, che fuggì in Russia.
Yanukovych aveva rifiutato di firmare un accordo di associazione dell'Ucraina all'Unione Europea in favore di un prestito russo, concesso da Putin, che avrebbe legato maggiormente Kiev a Mosca. Successivamente alla sua fuga, fu eletto presidente Poroshenko, un leader più vicino all'Occidente che alla Russia. Ne seguì una ondata antirussa, che andò dall'abbattimento delle statue di epoca sovietica al cambiamento della giornata nazionale dell'Ucraina. Se la parte occidentale del Paese approvava questa sorta di damnatio memoriae, le regioni orientali dell'Ucraina vedevano con sempre maggiore ostilità le politiche di Kiev.
È in questo contesto che la regione della Crimea, a maggioranza di popolazione russa e russofona, fu annessa da Putin alla fine di febbraio. Il 27 febbraio Mosca inviò truppe senza insegne (i cosiddetti omini verdi) a prendere il controllo del governo locale. Il 16 marzo si tenne un referendum sull'autodeterminazione della penisola, non riconosciuto dalle autorità internazionali, che vide la vittoria del Sì con il 95,32% dei voti; infine il 18 marzo fu firmata l'adesione formale alla Russia.
Sulla scia di quanto avvenuto in Crimea, scoppiarono una serie di proteste filorusse nella regione del Donbass, in particolare negli Oblast' di Donetsk e Lugansk. Tra marzo e aprile in queste due aree ci furono diverse manifestazioni, che culminarono nell'occupazione dell'amministrazione regionale statale di Donetsk e della sede del Servizio di Sicurezza dell'Ucraina di Lugansk.
I rappresentanti dell'Oblast di Lugansk pubblicarono un ultimatum: se Kiev non avesse soddisfatto le loro richieste indipendentiste entro il 29 aprile, avrebbero lanciato una rivolta in tandem con la Repubblica di Donetsk. Le richieste non furono soddisfatte, quindi le rivolte continuarono e si espansero oltre gli Oblast di Donetsk e Lugansk. In nessuna delle due aree i partecipanti alle proteste riuscirono a prendere il controllo di tutto il territorio, che fu invece occupato dall'esercito ucraino. Riuscirono comunque a controllare parzialmente diverse città dell'Est, da Mariupol a Kramatorsk.
Il governo ucraino portò avanti una massiccia controffensiva nei territori occupati dagli insorti, tra cui Odessa: qui il 2 maggio 2014 un gruppo di manifestanti filorussi, rifugiatosi nella Casa dei Sindacati, fu circondato dai nazionalisti ucraini armati di molotov. Si sviluppò un incendio: la polizia non intervenne per salvare i manifestanti, causando la morte di 42 civili.
L'11 maggio si tenne il doppio referendum per l'indipendenza di Donetsk e Lugansk: in entrambi i casi fu netta la vittoria del fronte indipendentista e filorusso. Il referendum non fu riconosciuto da nessuno Stato, a eccezione della Federazione Russa. A luglio si intensificò l'offensiva contro i ribelli, e le forze ucraine cominciarono a riconquistare le città occupate a Est. Il 3 agosto 2014 le forze militari ucraine circondarono Donetsk e Lugansk, vincendo di fatto la guerra sul campo.
La tregua e i colloqui di Minsk
Nella città di Minsk, in Bielorussia, si tennero gli accordi di pace tra il governo ucraino e le due repubbliche separatiste. Parteciparono alle trattative l'Ucraina, la Russia e le repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, sotto l'egida dell'OSCE, l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. L'accordo prevedeva un cessate il fuoco immediato, lo scambio dei prigionieri e l'impegno, da parte dell'Ucraina, di garantire maggiori poteri alle regioni di Doneck e Lugansk. Tuttavia, nonostante abbia portato ad un'iniziale diminuzione delle ostilità, l'accordo non è stato rispettato.
Nota: le informazioni riportate nell’articolo sono reperibili liberamente su internet.
RELAZIONI INTERNAZIONALI
COSTRUIRE PONTI, ABBATTERE MURI
di Francesca Sbianchi
Conferenza Ministeriale sulla Disabilità "Migliorare l'accessibilità e l'accesso ai diritti e attuare la Strategia UE 2021-2030", Parigi, 9 marzo 2022: Testimonianza di Francesca Sbianchi, in rappresentanza del Comitato Giovani del Forum Europeo della Disabilità (European Disability Forum - EDF), rivolta ai Ministri per gli affari sociali degli Stati membri UE, nel corso della sessione "Migliorare le opportunità di occupazione e Istruzione in una Unione Europea più inclusiva".
Le persone con disabilità hanno in sé risorse che vanno riconosciute e coltivate e vogliono partecipare e dare il proprio contributo alla società.
È essenziale tenere in considerazione che ogni persona conserva in sé un'unicità che deve essere rispettata, tutelata e valorizzata per la crescita sostenibile ed etica della società. La partecipazione è un elemento fondamentale per le persone con disabilità. Come ogni altro individuo, abbiamo diritto a costruire un percorso per l'autoaffermazione e l'autoefficacia.
L'istruzione deve fornire competenze per una futura professionalità, ma anche strumenti per affrontare la vita, per acquisire maggiore consapevolezza dei propri mezzi, dei propri limiti e degli strumenti che si possono avere a disposizione per riconoscere i problemi, analizzarli e superarli, in equilibrio tra interdipendenza e autonomia. Ci sono barriere da superare, muri da abbattere e ponti da costruire.
Per quanto mi riguarda, ho avuto l'opportunità di frequentare scuole inclusive e i traguardi che ho raggiunto li devo proprio al percorso educativo compiuto. Frequentare le scuole di tutti mi ha messo alla prova ogni giorno. In tutti i contesti educativi, sono sempre stata la prima alunna con bisogni speciali e ricordo la fatica di dover trovare le strategie per superare le difficoltà derivanti dalla mia disabilità, per essere al passo con i miei compagni e dimostrare in primis a me stessa e poi agli altri il mio valore. Non sempre il contesto, gli insegnanti di sostegno, i sussidi didattici sono adeguati e, anche quando lo sono, altri elementi devono essere considerati: si tratta di relazioni che vanno costruite e non possono prescindere dall'empatia.
Per quanto riguarda il lavoro, ho usufruito del collocamento mirato, perché il libero mercato del lavoro non tutela abbastanza la diversità e il sistema previdenziale non mi avrebbe sostenuto adeguatamente durante la ricerca di un impiego confacente alle mie aspettative e capacità.
Eppure, la mia laurea in relazioni internazionali mi ha dato le competenze per occuparmi di gestire un'associazione a livello locale, di impegnarmi nella progettazione europea e nazionale, di partecipare attivamente alle associazioni delle persone con disabilità a livello nazionale, europeo e internazionale. Ci sono tante persone e tanti giovani che come me vogliono dare il proprio contributo alla comunità in cui vivono, ma incontrano grosse difficoltà a farlo e troppo spesso devono rinunciarvi.
Con la creazione della nuova Strategia dell'UE sui diritti delle persone con disabilità, abbiamo visto quanto la Commissione europea riconosca i principali problemi che le persone con disabilità devono affrontare, quando si tratta di occupazione e istruzione. Tuttavia, la capacità della Strategia di affrontare davvero questi problemi è in bilico e dobbiamo ancora vedere esattamente quanto saranno ambiziose e misurabili queste azioni.
Il tasso di disoccupazione delle persone con disabilità è sproporzionatamente elevato rispetto a quello delle persone senza disabilità. Le donne con disabilità e i giovani con disabilità sono ancora più vulnerabili alla disoccupazione. I dati a livello di Unione Europea del 2019 mostrano che le persone con disabilità nell'UE hanno 24,4 punti percentuali in meno di probabilità di essere occupate rispetto alle persone senza disabilità. E ovviamente queste cifre nascondono il fatto che c'è anche un problema che riguarda la qualità del tipo di impiego a cui si accede.
Nella nuova strategia dell'UE per i diritti delle persone con disabilità, la Commissione europea propone la creazione di un "Pacchetto per migliorare i risultati del mercato del lavoro per le persone con disabilità". Non è ancora chiaro come sarà costituita questa iniziativa, ma due aspetti sono evidenti. In primo luogo, questa misura dovrà concentrarsi non solo sul mondo del lavoro in sé, ma anche sul ruolo dell'istruzione. E in secondo luogo, non ci potrà essere alcun progresso senza l'impegno degli Stati membri.
Ci sono molti ostacoli che le persone con disabilità devono affrontare quando cercano lavoro nel libero mercato e vorremmo che la Strategia sulla disabilità se ne occupasse.
Uno dei maggiori ostacoli è legato al reddito minimo. Molti di noi devono sostenere un costo della vita più elevato e quindi dipendono dai servizi di supporto e dall'indennità di disabilità per vivere dignitosamente. Alcuni di noi sostengono costi maggiori per alloggi accessibili, per trasporti accessibili per sopperire alla mancanza di mezzi pubblici che possiamo utilizzare, per ausili e assistenza personale, solo per citarne alcuni.
Questo è il motivo per cui il sostegno in termini di servizi e indennità di disabilità è così importante. Tuttavia, quando iniziamo a lavorare, tale supporto viene fortemente ridimensionato o eliminato. Poiché le persone con disabilità sono troppo spesso legate a lavori di livello base, retribuiti con un salario minimo, non riescono quasi mai a far fronte ai propri bisogni soltanto con il proprio stipendio, tantomeno a raggiungere l'emancipazione dalla propria famiglia di origine, soprattutto in questo periodo così complesso dal punto di vista sociale ed economico.
Ciò che chiediamo ai responsabili politici è consentire una certa flessibilità per quanto riguarda i regimi di protezione sociale e di considerare la possibilità di permettere alle persone con disabilità di poter conservare l'indennità di disabilità, almeno in parte, quando iniziano a lavorare. Ci auguriamo che questa sia una parte centrale del Pacchetto sull'occupazione proposto dalla Commissione.
Come europei, molti di noi, in particolare i giovani, desiderano ampliare i propri orizzonti, viaggiare all'estero per studiare e lavorare. Questo fa parte della bellezza di essere un cittadino dell'Unione Europea. Tuttavia, per noi persone con disabilità, questa prospettiva è lontana dalla realtà. Nell'UE, non appena attraversiamo un confine nazionale, le nostre disabilità non vengono più riconosciute e nemmeno il nostro diritto alla previdenza economica. Ciò significa che il trasferimento in un altro Stato membro dell'UE ci vede privati del diritto al sostegno e all'assistenza, rendendo ancora più difficile affrontare quella che è già una transizione complessa. Dobbiamo aspettare ancora per essere nuovamente valutati, e poi aspettare ancora di più per scoprire che tipo di sostegno possiamo sperare di ricevere. Nel frattempo, per mancanza del supporto necessario, potremmo aver già perso il lavoro o abbandonato gli studi. Per coloro che necessitano di assistenza 24 ore su 24, le ripercussioni sono ancora più pesanti. In realtà, quindi, avvalersi della libertà di movimento diventa un rischio che per molti non è possibile correre.
L'auspicio è che il fondamentale tema della libertà di movimento all'interno dell'Unione Europea venga finalmente affrontato dal nuovo "Pacchetto per migliorare i risultati del mercato del lavoro" e dalla proposta di una Disability Card comunitaria rinnovata ed estesa. Esortiamo gli Stati Membri a sostenere l'ampliamento degli ambiti di applicazione della card e a sostenerci nella creazione di un'Unione Europea in cui lo status di disabilità sia reciprocamente riconosciuto tra Stati.
Inoltre, non possiamo non insistere sulla necessità di approcci migliori per offrire accomodamenti ragionevoli ai lavoratori con disabilità. È necessario disporre di orientamenti più chiari al riguardo a livello dell'UE, che definiscano i tipi di sostegno e quale autorità ne dovrebbe essere responsabile. Vorremmo vedere le autorità nazionali utilizzare i fondi dell'UE per migliorare l'accessibilità sul posto di lavoro offrendo maggiore supporto finanziario ai datori di lavoro, per incoraggiarli ad apportare le modifiche necessarie.
E infine, per quanto riguarda l'istruzione, ribadiamo la necessità che sia data a tutti gli studenti con disabilità la possibilità di studiare in contesti educativi inclusivi e con il sostegno appropriato. Nel mio paese, l'Italia, l'istruzione inclusiva è la norma, ma in altri Stati europei sono molto più comuni i contesti di apprendimento separati. È urgente che in tutta l'UE vengano investite maggiori risorse, anche provenienti dai fondi strutturali dell'UE e dal finanziamento per la ripresa e la resilienza, a favore della formazione e della dotazione di insegnanti, assistenti di classe, di tecnologie assistive e di materiali didattici adeguati per garantire che gli studenti ricevano l'attenzione e il sostegno di cui hanno bisogno per imparare al meglio delle loro capacità.
Vorrei ringraziarvi per avermi offerto l'opportunità di condividere con voi la mia esperienza di persona attiva nel movimento internazionale della disabilità e ricordarvi che, senza di voi che lavorate a livello nazionale, nessuno degli obiettivi della Strategia dell'UE 2021-2030 sui diritti delle persone con disabilità può diventare realtà. Noi, gli oltre 100 milioni di persone con disabilità in Europa, contiamo su di voi e sul vostro sostegno.
Timori, speranze, determinazione
di Mario Barbuto
(dal giornale online dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ONLUS-APS)
Dal 24 febbraio scorso, il mondo intero assiste con sgomento e preoccupazione a una vera e propria invasione di uno Stato sovrano da parte di una super potenza nucleare. In vero non si tratta della prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, ma lo scenario europeo, il momento particolare, il contesto specifico rendono questa operazione militare davvero unica e carica di rischi per tutti.
Con troppa facilità e frequenza, purtroppo anche in Italia, si ragiona di armi, forniture belliche, dislocazione di mezzi militari sui confini della nazione aggressiva, incremento in bilancio delle spese per la difesa, mentre non si insiste mai abbastanza sulla necessità morale e politica di costruire ponti piuttosto che innalzare muri, anche dinanzi a una aggressione inaccettabile, perfino davanti alla persistenza dell'aggressore.
La guerra è un flagello insopportabile, un atto criminale dal quale siamo tutti destinati a uscire sconfitti e devastati, come ci ricorda di continuo la voce libera, pura e indipendente di Papa Francesco, l'unica, vera, autorità oggi al servizio dell'umanità. La guerra, con la sua violenza brutale e indiscriminata, diviene, tra l'altro, la prima causa di disabilità, come ci ricorda la sorte del nostro Padre Fondatore Aurelio Nicolodi, insieme a quella di tanti nostri fratelli, amici e compagni ancora oggi segnati nel corpo e forse anche nell'anima dai lasciti di una esplosione di ordigno bellico subìta dentro le proprie carni, i propri organi, i propri muscoli e nervi. La guerra, che giunge a noi giusto al termine di una micidiale pandemia che ci ha martoriato per oltre due anni, suscita e solleva timori e preoccupazioni:
- per i nostri fratelli con disabilità vittime dirette della violenza bellica sul terreno nel Paese aggredito.
- Per il nostro Paese alle prese con vecchi e nuovi problemi di approvvigionamento energetico che minacciano di impoverire i nostri giorni presenti e futuri.
- Per l'ascesa dei prezzi delle materie prime e dei prodotti di consumo, in verità già in atto da diversi mesi ancor prima dell'inizio del conflitto, per altro quasi mai giustificata, eppure imposta alla cittadinanza da azioni di personaggi senza scrupoli, alle quali non sempre l'autorità governativa riesce a opporre un valido contrasto.
- Per le fasce di popolazione più esposte agli effetti della crisi e in particolare per le persone con disabilità e la loro esistenza di ogni giorno.
L'Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti, associazione ultra centenaria non solo di tutela degli interessi materiali e morali delle persone che rappresenta, ma anche portatrice di valori umani, civili e sociali condivisibili con l'intera cittadinanza, si aggiunge e si associa all'indignazione per quanto in atto, ma condivide anche da un lato le preoccupazioni legittime degli associati e rappresentati, dall'altro il desiderio e l'urgenza di recare aiuto e conforto alle popolazioni colpite, con speciale riguardo per i nostri fratelli con disabilità visiva. Un aiuto concreto, pur nei limiti delle nostre modeste possibilità, indirizzato a due distinti obiettivi:
- assistere le vittime della guerra sul loro territorio e nei Paesi confinanti, dove già si concentrano molti profughi. La struttura organizzativa e amministrativa dell'Ebu (Unione Europea dei Ciechi), offre tutte le garanzie di impiego efficace, efficiente e virtuoso delle risorse che faremo pervenire.
- Sviluppare azioni di accoglienza diretta sul territorio italiano, a beneficio di rifugiati con disabilità visiva, offrendo loro residenzialità, sostegno psicologico, linguistico, didattico.
Eppure queste azioni di doverosa e sentita solidarietà, non potranno farci trascurare le preoccupazioni per la vita quotidiana di tutti noi. Il rischio di spostamento di risorse significative nel bilancio dello Stato e degli altri enti territoriali, infatti, appare sempre più concreto, nonostante le assicurazioni e le promesse. Il timore che le stesse risorse del Pnrr subiscano una rimodulazione per essere dirottate verso l'approvvigionamento di fonti energetiche di Paesi diversi dai fornitori odierni, a tutto discapito della spesa sociale e dei finanziamenti destinati ai servizi e alle azioni di sviluppo e miglioramento del contesto di vita attuale, si profila oggi minacciosamente concreto.
Occorre dunque oggi come ieri, forse più di ieri, una determinazione incrollabile da parte nostra per vigilare su quelle risorse già allocate per mantenere i servizi in essere e per dare corso ai progetti in via di elaborazione. Un'altra sfida impegnativa per la nostra Unione, da vivere e vincere grazie al nostro proverbiale spirito di unità, coesione, determinazione che non deve subìre incrinature di sorta.
Il 25 aprile si approssima! E ci ricorda gli orrori di un'Italia occupata, devastata e sconfitta, ma anche pronta a rimettersi in piedi per lavorare nella speranza di un mondo migliore, una società più giusta, un'esistenza più dignitosa per tutti.
Gli avvenimenti odierni potrebbero indurre a pensare il contrario, ma tenersi per mano, comunicare forza, trasmettere fiducia, offrire solidarietà, coltivare speranza, ci darà ancora una volta la determinazione per superare l'orrore del presente, fugare i timori di oggi, camminare verso quel mondo nuovo al quale tutti abbiamo diritto in Italia, in Europa in ogni continente e angolo della Terra. Quel diritto alla felicità troppo spesso dimenticato, trascurato, o peggio, semplicemente svalutato e deriso.
REFERENDUM 12 GIUGNO 2022
Definiti i colori delle schede per i referendum abrogativi del 12 giugno
Come si vota
di Massimo Vita
Per ogni referendum vi viene consegnata una scheda e tutte le schede hanno colori diversi.
Nel dettaglio, avranno i seguenti colori:
scheda di colore rosso per il Referendum n. 1: abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi; scheda di colore arancione per il referendum n. 2: limitazione delle misure cautelari: abrogazione dell'ultimo inciso dell'art. 274, comma 1, lettera c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale;
scheda di colore giallo per il referendum n. 3: separazione delle funzioni dei magistrati. Abrogazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati;
scheda di colore grigio per il Referendum n. 4 : partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari. Abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte;
scheda di colore verde per il Referendum n. 5: abrogazione di norme in materia di elezioni dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura.
Il corpo elettorale comprensivo anche degli elettori residenti all’estero, desunto dalla rilevazione semestrale 31.12.2021, è pari a 51.533.195 di cui: 25.039.273 uomini e 26.493.922 donne.
I referendum per essere validi devono votare la metà più uno degli aventi diritto.
Si vota un solo giorno.
Ricordo che i disabili possono essere accompagnati ma devono avere il timbro apposito sul certificato elettorale che viene apposto dal comune di residenza su richiesta del cittadino e dopo aver preso visione del verbale di invalidità.
Può votare anche accompagnato o a domicilio chi si dovesse trovare impossibilitato per malattia grave o in caso di positività ma nel primo caso deve avere il certificato del medico legale appositamente designato dalla ASL di competenza e nel secondo su segnalazione del servizio di igiene pubblica.
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CONTATTA L'UNIONE
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